IL FASCINO DISCRETO DELL'OGGETTO, 

ovvero la ridondanza della discrezione



La Storia dell'Arte, non solo occidentale, è colma, letteralmente brulicante, di oggetti non marginali all'intento creativo e, fare chiarezza sul senso del loro utilizzo e interpretazione non è impresa di poco conto. 

Escludendo però in, primis, le realizzazioni meramente artigianali, per quanto degne di grande apprezzamento, balza subito agli occhi che il vero scarto interpretativo è dato da un utilizzo concettuale in senso lato dei soggetti artistici: non esiste in realtà vera arte priva di concetto e di progettualità e ciò vale anche per l'arte del passato legata alla committenza, anzi, proprio in questi casi, gli aspetti marginali, non legati alle tematiche imposte, potevano veicolare messaggi forti, spesso esoterici e sottili e così, talora, la rappresentazione di un catino o di un libro potevano suggerire, a chi sapeva e voleva leggere, un significato altro. 

Tra gli esempi più eclatanti di concettualizzazione e  di reinterpretazione degli oggetti d'uso, non possiamo non ricordare il florilegisacro/blasfemo di oggetti animati e trasfigurati che animano i pannelli di Hieronymus Bosch, incroci assurdi oltre il più ardito concetto di trasgender: non sono semplici grilli gotici ma travalicano ogni categoria per rasentare un post-human di impressionante contemporaneità mentre, sempre in tema di accostamento tra storico e contemporaneo, la fissità pre-metafisica e pre-surrealista di certi particolari di quadri a soggetto e di tante nature morte non possono non  far scattare una molla mentale sul fascino e sull'importanza (molto discreta appunto) che quegli oggetti rivestivano nell'economia dell'opera. 

Follie interpretative? Può darsi, ma mi sbilancio ancora ricordando le wunderkammer dove il fascino degli oggetti è travolgente e dove la raccolta di “cose” meravigliose, strampalate oppure comunissime ma esotiche per esporle decontestualizzate e museificate in ambienti altri mi ricorda troppo, in nuce ovviamente e con le dovute precisazioni storiche, un abbozzo di ready made, venato naturalmente, dati i tempi, di forti connotati esoterici ma, d’altra parte, si dice che anche Duchamp giocasse con l’alchimia.....

Ho voluto fare questo brevissimo excursus, molto parziale, per accennare al vastissimo background culturale ed espressivo che sottende l’utilizzo degli oggetti nelle arti figurative, ma è con l’avvento dell’arte contemporanea che l’oggetto assume sue caratteristiche ben definite e assurge a protagonista, acquisendo anche un preciso ruolo di protagonismo nei dibattiti che hanno animato le avanguardie. Volendo schematizzare si possono identificare due filoni ben precisi in cui l’oggetto si fa arte nella contemporaneità: uno che vede gli artisti progettare direttamente gli oggetti d’uso connotandoli di precise valenze estetiche, l’altro invece caratterizzato dal recupero di oggetti già esistenti e dal loro riuso in creazioni artistiche di diversa valenza semantica, in sintesi nel primo caso una sedia rimane tale come funzionalità e scopi, nell’altro un orinatoio diventa semplicemente una scultura.


Si tratta naturalmente di uno schematismo puramente didattico che non esclude sconfinamenti e commistioni, comunque è indiscutibile che entrambi i filoni possiedono radici ben profonde unite a una vitalità presente e attuale. Dal sogno socialista del gruppo “Arts and Crafts” di un'arte per tutti al design attuale che vede artisti cimentarsi nella progettazione di articoli tecnologici e la moda sconfinare nell'arte sono passati quasi due secoli, passando per le avanguardie sovietiche, il Bauhaus, la scuola di Ulm, la grande fioritura degli anni '60 e ormai siamo talmente abituati al fenomeno da non fare quasi più caso ai nomi di chi firma le cose della nostra quotidianità, reali ma anche virtuali, come lo sfondo di Jenny Holzer che sto usando ora sul mio browser, mentre, per l'altro filone, gli artisti di oggi decontestualizzano, usano e riusano gli oggetti con lo stesso entusiasmo creativo e la stessa ironia profonda con cui, agli inizi del secolo scorso, Schwitters costruiva il suo impossibile albero di biglietti e Duchamp recuperava l'irrecuperabile e il ripugnante. 

In questa mostra, ospitata in uno straordinario museo di cultura materiale letteralmente debordante di oggetti-cappelli dove la storia della creatività umana si fonde con la storia della moda, del costume e, non ultima, con la storia sociale saranno presentati objets d’art di entrambi i tipi, in un dialogo continuo e sussurrato tra loro, con l’ambiente e con gli spettatori, frammenti affascinanti di una storia lunga e in continua evoluzione.

Dalla parte del progetto e del design “puro” troviamo il “Boalum” di Castiglioni & Frattini, perfetto esempio della grande stagione modernista: questa straordinaria lampada flessibile, modellabile a piacere e innovativa per l’epoca anche nei materiali, si fa scultura di luce duttile e multiforme e, richiedendo un apporto creativo anche dal suo utilizzatore, scompagina ulteriormente le carte e ribalta le distinzioni; se gli architetti l’hanno progettata sarà poi il suo proprietario a darle forma, componendola, annodandola, tirandola in un gioco continuo che prevede mille variabili personali. L’arte irrompe nella moda, invece, con gli occhiali di Vincenzo Marsiglia che vede il giovane artista divertirsi ad imprimere la propria inconfondibile cifra espressiva, mix di segno iterato e di studio cromatico, su una linea di accessori fashion; in questo caso l’artista si fa stilista e nasce un oggetto ibrido,  dalla connotazione volutamente ambigua, in bilico  tra l’accessorio firmato

e il multiplo da indossare ma che potrebbe anche diventare scultura e, quindi, ready made di ritorno se fosse, ad esempio, esposto in una teca.

La seduta di Mario Ceroli si pone poi esattamente sulla linea di confine tra i due ambiti espressivi sopracitati, è un mobile e una scultura insieme, ma dell’elemento d’arredo ha solo la forma e la potenzialità funzionale, l’aura indiscutibile che la circonda la sposta tutta dalla parte dell’arte e basta, è un’opera di Ceroli non una sedia d’artista come d’altronde tutti gli altri arredi disegnati dall’autore: a questo proposito mi emerge dalla memoria uno straordinario letto/mascherone che dalle pagine di una rivista di arredamento colpì indelebilmente la mia fantasia di bambina. Infine abbiamo gli artisti che dell’oggetto fanno materia duttile per la loro vena espressiva, tutti comunque accomunati da un sapore ludico e giocoso che vela di leggerezza ciò che leggero non è, ma, molto spesso esistenzialmente sofferto.

Possiamo così riflettere sulle scatole di tonno e sardine in cui nuotano, già imprigionati, simulacri di pesciolini di Corrado Bonomi, un artista che accentua dichiaratamente la vena ludica e l’utilizzo eclettico e postmoderno di materiali e tecniche per sottendere un discorso linguistico complesso e autoreferenziale, ricco di rimandi e citazioni incrociate, ironiche e autoironiche insieme, mentre Antonio Carena gioca con la materia, le parole e gli oggetti, ricoprendo e nobilitando un’  umile asse da toilette con i suoi cieli aerografati e poi sporcando il tutto con della banale, grassa, ambigua terra, creando così un’opera dal vago sapore magrittiano a partire dalla scelta di un titolo essenziale e necessario per la comprensione della stessa, un titolo senza cui l’opera non potrebbe esistere: “oh cielo!”

Importantissime le parole e i titoli anche per i lavori di Margherita Levo Rosenberg, artista che ama caricare le sue creazioni di significati complessi e iper inclusivi dove il recupero di testi scritti spesso è una fondamentale base di partenza: dal riuso, dal ritaglio e dall’arricciatura di libri di medicina nascono così oggetti che rimandano ai significanti di permanente e bigodini, tipicamente femminili ma non solo, essendo il termine “permanente” carico di plurime valenze semantiche che si ripresentano anche nella “Repubblica permanente delle donne”, installazione di riviste che dietro alla frivolezza di ricci e capricci sottende valenze sociali di ben altro respiro.  

Il riuso e il recupero estetico dell’oggetto basso e comune connota anche “Ziggurat” di Gianni Caruso, che vede banali teglie da forno utilizzate per costruire strutture importanti, di una linearità estetica purissima non prive, però, di una vena sottilmente ironica nei confronti del rigoroso minimalismo americano tanto di moda qualche tempo fa, una sorta di minimalismo mediterraneo, venato di arte povera, che si diverte a creare il bello e l’essenziale con merce di scarto e  anche in questo caso il titolo nobilitante complica e accresce il gioco interpretativo.

Infine le opere forse più difficili da inquadrare, a prima vista, nel tema dell’esposizione: le polaroid di Carlo Mollino, architetto e designer che sconfina in un’arte, apparentemente, solo rappresentativa, eppure il recupero e il riuso di un oggetto è anche qui il protagonista, solo che non si tratta di cose, ma dei corpi delle donne fotografate che vengono modificati, reinterpretati, rielaborati fino a creare un soggetto che non esiste, un’idea di donna che è tutta mentale e interna all’artista, osservando queste foto non ci si deve far ingannare dall’atmosfera sottilmente torbida ed erotica che le avvolge, non si tratta della solita donna-oggetto delle rivistucole e della televisione ma di un oggetto-donna, in sintesi del tentativo di dar vita e visibilità a un concetto.

Tanti modi diversi e personali quindi per declinare il rapporto tra arte e oggetto ma tutti, indistintamente,  accomunati dal fascino sottile della discrezione.



THE DISCREET CHARM OF THE OBJECT, Namely the Redundancy of Discretion


History of art – and not only the Western one – is full, literally teeming with non-marginal objects with respect to creative design. Understanding their meaning and interpreting their use is not easy at all. However, if we leave out purely artisanal works – despite all the respect they may deserve - it is immediately clear that the actual interpretation gap comes from a conceptual use – in general terms – of artistic subjects. Indeed, no real art is without concepts or created without a proper plan. This is also true for the art of the past, originated by Customer demand. Actually, in these cases in particular, marginal aspects independent of the themes required by the Customer, were carrying strong, often esoteric, and subtle messages. Hence, at times, the drawing of a bowl or a book would suggest a different meaning to the knowledgeable viewer. Among the most striking examples of conceptualization and reinterpretation of common objects, there is the holy/ blasphemous florilegium of animated and transfigured objects giving life to the paintings of Hieronymus Bosch: nonsensical interbreedings  transcending even the most audacious transgender concept. They are not mere gothic vagaries, since they go beyond any existing category, approaching a post-human, strikingly contemporary nature. Conversely, to make yet another comparison between past and contemporary art, the pre-metaphysical and pre-surrealistic fixity of some details in subject paintings, and in many still lives easily triggers thoughts about the charm and importance (indeed a very discreet one) of all these objects within the work of art. Interpretation madness? Perhaps. But, taking the idea a bit farther, I would like to recall the Wunderkammern, with the overwhelming charm of the objects they contain, and their collections of wonderful, bizarre, or even very common but exotic "things", put on show out of context and turned into museum displays. All this reminds me of ready made art - although only in its embryonal stage and with all due historic adjustments – but - obviously enough considering the times - with tinges of strong exoteric features. By the way, Duchamp was also rumored of playing with alchemy....

This very brief and incomplete excursus is meant as a reference to the huge cultural background underlying the use of objects in figurative arts. However, it is with the advent of contemporary art that objects acquire well defined features and become the main characters in all the debates that have animated avant-garde movements. Following a schematic approach, two well defined currents can be identified, where objects, in our contemporary times, become art: one in which artists design common objects, while giving them a specific aesthetic value; whereas the other is characterized by the recovery of already existing objects and their recycling into artistic creations with a different semantic value. In other words, in the first case, a chair is still a chair in terms of functions and purposes, in the second case, a urinal simply becomes a sculpture.

No doubt, this schematic approach, including all its encroachments and mixtures with other domains, serves only educational purposes. However, undeniably, both these currents have very deep roots, as well as current and contemporary vitality. Two centuries have passed from the socialist dream of "Arts and Crafts" purporting art for everybody, to modern design where artists engage in the design of technological items and fashion encroaches upon art. In between, we had the Soviet avant-gardes, the Bauhaus, the Ulm School of Design, and the great blossoming of the '60s. Today, we have become so much accustomed to this phenomenon, that we barely pay any attention to the designers of our daily, real, but also virtual, objects. I’m referring, for example, to my screensaver by Jenny Holzer, whereas, with regard to the other current, today’s artists use and recycle items and objects with the same creative enthusiasm and the same deep mockery applied at the beginning of the last century by Schwitters, in his Merzbau, and by Duchamp, in his recycling of useless and disgusting things.

This exhibition is hosted in an extraordinary museum of material culture, literally  overflowing with objects-hats, and where the history of human creativity merges with the history of fashion, costume, and, last but not least, social history. Here, objets d’art of both types will be on display, and will be entertaining an ongoing, whispered dialogue between them, the environment, and the viewers, thus representing fascinating fragments of a long and constantly evolving history.

In the first category of project-based works and “pure” design, we have “Boalum” by Castiglioni & Frattini. A perfect example of the great modernist season, this extraordinary lamp - flexible, adjustable as desired, innovative for its time also in its materials -  turns into a pliable and manifold sculpture of light. Since it requires some creative contribution by its user, it further shuffles the cards, blurring all distinctions: although designed by architects, it will get its final shape from its owner, who will set it up, by knotting it, pulling it in a continuous game offering endless personal variations.

Conversely, art breaks into fashion with Vincenzo Marsiglia’s glasses: this young  artist has fun affixing his unique expression signature – a mix of iterated signs and color design – on a line of fashion accessories. In this case, the artist becomes stylist and a new hybrid object is born, with an intentionally ambiguous character, someway in between a signed accessory and a wearable multiple. And yet, it could even become a sculpture; hence, if displayed, it could well be a comeback of ready made art.

Then, Mario Ceroli’s chair straddles the border line between the above described expression domains: piece of furniture and sculpture at the same time, it has only the shape and the potential function of the former, since the undeniable aura surrounding it definitely moves it to the domain of art. In other words, it is a work by Ceroli and not an artist’s chair, just like all the other pieces of furniture designed by him. On this point, an extraordinary bed/big mask comes to my mind, which, as a child, struck my imagination from the pages of an interior design magazine.

Finally, we have those artists who use objects as pliable matter to express their creative inclination. They all have in common a playful and facetious attitude, casting a veil of fatuousness on what is not fatuous at all, but rather, and quite often, burdened with existential pain. Therefore, we can meditate about the tuna and sardine tins by Corrado Bonomi, in which imprisoned small fish effigies swim. This artist openly stresses his playful vein and the eclectic and postmodern use of materials and techniques, hinting at a more complex and self-referential discourse, full of references, cross-references, ironic and self-ironic citations. Conversely, Antonio Carena plays with matter, words, and objects, by covering a humble toilet seat with aerography painted skies and then fouling it with trivial, fat, ambiguous soil. In so doing, he creates a vaguely Magritte style work, to begin with its essential title, which is necessary for its very understanding, a title without which the work itself could not exist: “oh cielo!” (Oh Heavens!)

Words and titles are also very important for the works of Margherita Levo Rosenberg. This artist loves to charge her creations with complex and hyper-inclusive meanings, where the recovery of written text is often a key starting point. Through recycling, cutting, and curling of medical books, objects are thus created hinting at typically feminine hair perm and rollers, but not only at them: indeed, the word perm/permanent is full of different semantic values that are also present in the “Repubblica permanente delle donne” (Permanent Republic of Women), an installation made of magazines, hiding, under flimsy curls, social issues of a much wider scope.

Recycling and aesthetic recovery of ordinary, lowly items also characterizes Gianni Caruso’s “Ziggurat”. Ordinary baking tins are used to build important structures, with perfectly pure esthetic lines, but also with a subtly ironic streak addressed at that rigorous American minimalism which was so fashionable some time ago. It is a sort of Mediterranean minimalism, tinged with Arte Povera,  which has fun creating beautiful and essential objects with waste material. In this case too, its ennobling title makes its interpretation even more challenging and complicated.

To conclude, let’s have a look at the works which, at first sight, are the most difficult in the exhibition to situate: Polaroid snapshots by Carlo Mollino, architect and designer digressing into art, which is, apparently, only representative. Yet, recycling and reuse takes once again the lion’s share: the point is that these are not objects, but photos of bodies of women that are modified, reinterpreted, and processed until they create a non-existing subject, the idea of a woman which is totally mental and inside the artist himself. By looking at these photos, the viewer should not be deceived by the subtly murky and erotic atmosphere of these photos; it is not the usual sex-object of gossip magazines or TV shows, but a woman-object, in other words, an attempt at giving life and visibility to a concept.

Hence, many different and personal ways to express the relationship between art and object, all of them, without distinction, united by the subtle charm of discretion.

Elisabetta Rota


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